domenica 14 ottobre 2012

Alfredo Betocchi ci racconta... "Una strana gita nel bosco".

Mi chiamo Leone e sono triestino. Sono sposato felicemente con una bella “mula”, come chiamiamo noi le ragazze, che si chiama Anna. Stefania è la nostra adorabile bambina di otto anni. Siamo una famiglia unita e felice. Abitiamo vicino a piazza della Cattedrale, dove si trova il Museo Civico di Storia ed Arte. Sono molto appassionato di Storia e il Museo mi ha invogliato ancora di più ad amarla. Nelle scuole si usa portare le classi a visitarlo, così i ragazzi capiscono che la Storia non è solo un freddo elenco di date e di fatti. Una bella domenica mattina di un anno fa, verso la fine di gennaio, decidiamo di andare a passeggiare nei boschi alle pendici del monte Ripido, che dista una quindicina di chilometri da casa, ma si trova oltre confine, in Slovenia. Prendiamo il necessario per la gita, montiamo in macchina e via verso la sospirata mèta. La strada non è lunga, ma fuori città inizia la salita. Dopo mezz’ora, raggiungiamo il bosco che conoscevamo già. Lasciata la macchina in una radura, ci avviamo a piedi verso l’interno del bosco. I gridolini gioiosi di Stefania fanno da contrappunto ai richiami di Anna che ha sempre paura di perdermi e ogni volta mi chiama per controllare dove sono. Dopo la centesima chiamata, mi stanco e cerco di allontanarmi un po’. Fatti una decina di passi verso sinistra, in una direzione mai presa prima, sento che la terra mi manca sotto i piedi. Cerco di afferrarmi ad alcune radici che spuntano dal terreno, ma il precipizio è troppo ripido e non faccio in tempo. Rotolo per un tempo lunghissimo e batto la testa contro qualcosa di duro, forse una grossa pietra. Perdo i sensi. 
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Le tempie mi pulsano dolorosamente e ho le ossa indolenzite. Meno male che indossavo il giacchettone, sennò mi sarei rotto tutto. Mi accorgo di essere sdraiato su di un pagliericcio. Apro lentamente gli occhi, ma un dolore lancinante mi attraversa il cervello. Attendo un po’. Sento un respiro accanto a me: sarà Anna. Dopo un po’ riapro gli occhi, mentre sussurro: “Anna, sto bene”. Nessuno mi risponde. Giro con attenzione la testa e, con stupore, vedo accanto a me una bellissima ragazza con la testa coperta di un velo trasparente azzurro. Spalanco bene gli occhi e penso: “Sarà una volontaria della Croce Rossa Slovena.” Le sorrido mentre lei non apre bocca. Ha degli occhi nerissimi e profondi. “Dov’è Anna? E la bambina?” le chiedo. La ragazza fa un timido cenno poi mi investe con un fiume di parole incomprensibili. Non è sloveno, un po’ lo conosco. La guardo con espressione interrogativa e faccio cenno con la mano di no, che non capisco una parola di quello che dice. Lei continua il suo sproloquio incomprensibile. I suoi occhi sembrano implorare qualcosa. Mi mostra un ciondolo d’oro e me lo infila in tasca. In quel momento un telo della tenda si apre ed entra un… guerriero mongolo! Si, avete capito bene… e con un’espressione sul volto per niente rassicurante. Penso subito di essere capitato su un set cinematografico. Ma no, il bruto mi afferra con malagrazia per un braccio e mi solleva come un fuscello. Sento tutte le ossa che scricchiolano e la testa che mi scoppia, ma mi divincolo con aria offesa. “ Ehi! Che maniere!” Il tipo non si da per vinto e, acciuffatomi ancora per il braccio, mi trascina fuori dalla tenda. “Voglio sapere chi siete e chi vi da il diritto di trattarmi così!” grido. “Voglio sapere dov’è mia moglie e dov’è mia figlia!” Ma, appena fuori, mi ammutolisco allo spettacolo che mi si presenta davanti. Un accampamento immenso, con centinaia di tende e piccoli cavalli asiatici che brucano l’erba, guerrieri da per tutto, armati e dallo sguardo feroce. Poche donne velate mi guardano con curiosità, mentre dei marmocchi con gli occhi a mandorla corrono a rifugiarsi tra le loro lunghe gonne. Rimango immobile per un momento, scioccato, poi il guerriero mi spinge verso un vialetto laterale semideserto in fondo al quale vedo una grande tenda colorata. Di fronte all’ingresso, ci sono due autentici giganti che fanno la guardia. Sono veramente imponenti, a gambe leggermente allargate, reggendo a due mani una scimitarra appoggiata con la punta a terra. La loro presenza è inquietante, ma rimangono immobili mentre noi entriamo nella tenda. E’ una tenda immensa, piena di mobilio: sgabelli, armadi e perfino una cristalliera piena di oggetti d’oro. Il pavimento è ricoperto di preziosi tappeti orientali. Il mio sguardo è attirato, però, dal personaggio che siede su di una specie di trono di pelle, al centro della tenda. Dal suo aspetto pare il comandante del campo. Sta con le gambe incrociate, tenendo in collo un gattino dal pelo fulvo. Il manico di un pugnale gli spunta dalla cintura e porta il classico copricapo di lana sormontato da un elmetto puntuto. Mi ricordavo di aver visto un personaggio simile nel libri di storia, al capitolo dove si parlava di Gengis Khan. Il mio cervello fatica ad accettare tutto questo come reale e i miei neuroni frullano alla ricerca di una spiegazione razionale. All’improvviso, da dietro il “comandante mongolo” sbuca un personaggio vestito con una lunga sopraveste di velluto, verde e oro. Sul viso ha un’espressione divertita e malvagia. Io guardo il mio accompagnatore e questi mi spinge a terra, tenendomi la fronte incollata al terreno, la spada sguainata puntata sulla mia nuca. Per fortuna i pregiati tappeti attutiscono il colpo e non mi faccio male, a parte il terribile mal di capo che non vuole passare. Il sinistro figuro mi guarda, poi in un perfetto latino mi dice: “Miserabile insetto, sei al cospetto del Khan Batu, servitore fedele ed implacabile sterminatore dei nemici del Gran Khan Ogotay, figlio dell’Imperatore Gengis Khan che adesso galoppa nelle celesti praterie del cielo. Rimani così, con la testa nella polvere ed ascolta quello che Sua Altezza vuole sapere da te!” Per fortuna a scuola ero molto bravo in latino e non mi risulta difficile capirlo. A quelle parole, penso di essere finito in una gabbia di matti. Stanno sicuramente recitando ed hanno approfittato di me per provare una nuova scena, improvvisando. Cerco di alzare la testa per sbirciare, ma un’occhiataccia del Consigliere mi fa desistere prontamente. La lama dietro la mia nuca struscia leggermente la mia pelle, dandomi un sinistro presentimento . Il Khan Batu, con voce stentorea, abbaia alcune incomprensibili frasi. Il suo Consigliere s’inchina più volte, poi mi chiede: “Il Sublime Khan chiede al verme occidentale dove si trova la vostra città più grande.” Io non sono stupido e capisco al volo dove vuole parare. Mi faccio furbo e sto al gioco. Se tutto questo è vero e non sto sognando, questi pazzi scriteriati piombano su Trieste, provocando un massacro. “Non ci sono città dietro queste montagne”, rispondo, “ma solo acquitrini malsani e pieni di zanzare.” Il Consigliere mi guarda con rabbia, poi traduce le mie parole. Il viso giallastro ed incartapecorito del Khan non si muove e non commenta. Il suo tirapiedi s’avvicina e gli sussurra qualcosa all’orecchio. Il Khan spalanca gli occhi e mi guarda con ferocia. Poi grida ancora. Sulle labbra del Consigliere appare un sorriso maligno di soddisfazione. “Il nostro Signore dice che il verme occidentale è un mentitore!” traduce. “Non è vero”, faccio di rimando io, “dietro queste montagne c’è una pianura con una gigantesca palude. Ai vostri guerrieri marciranno i piedi e sprofonderanno nelle sabbie mobili. Tutta la vostra armata perirà in un modo atroce!” Il Khan Batu si gira leggermente verso il suo cortigiano, consigliandosi a lungo, quindi quest’ultimo mi fa: “Sua Sublime Altezza chiede al verme schifoso che gli sta davanti: dove sono allora le città dai tetti d’oro delle quali mi hanno riferito le mie spie?” “Non esistono, le abbiamo inventate per vantarci coi nostri nemici.” rispondo. Dopo la traduzione, il Khan, con aria annoiata, mormora ancora poche parole. Al Consigliere s’illumina il viso e, con un sorriso radioso, aggiunge: “Sei uno spregevole bugiardo. Gli sia mozzata la testa. Via!” e con un cenno della mano ci congeda. Il sangue mi si gela nelle vene. Il patetico tentativo di salvare la mia città da quei folli assassini era fallito. Il guerriero dietro di me mi tira su come una canna vuota. Si inchina al suo Khan, senza perdermi d’occhio, poi mi spintona fuori dalla tenda. Camminiamo per un po’ nel campo poi sbuchiamo in un tratto di terreno senza tende. Con raccapriccio vedo al centro dello spiazzo un ceppo di legno con delle sinistre macchie scure. Mi giro per dire qualcosa al mio spietato guardiano, ma la spada puntata mi obbliga ad avanzare ancora. Altri due guerrieri mi prendono, senza tanti complimenti, per le braccia e mi obbligano a chinare la testa sul ceppo. Il mio cervello è in fiamme, la disperazione per una situazione così assurda mi paralizza la mente. Il mio pensiero corre veloce ad Anna e a Stefania. Dove saranno? Le avranno catturate? Saranno confinate in una tenda o, il cielo non voglia, le avranno già uccise? Chiudo gli occhi in attesa del colpo finale, ma un improvviso tramestio sconvolge il campo. Tutti i guerrieri girano la testa per vedere chi arriva. Un altro mongolo al galoppo irrompe tra le tende, gridando incomprensibilmente una notizia, certamente molto importante. Vengo abbandonato con la testa ancora sul ceppo. Non oso muovermi, ma i miei occhi vedono che tutta la gente dell’accampamento corre verso la grande tenda colorata del Khan Batu. Un grido più alto di tutti, in latino, giunge ai miei orecchi: “Il Gran Khan Ogotay è morto. Torneremo in Mongolia per il Kurultay, il Consiglio dei Capi, e il nostro Sublime Signore sarà Gran Khan di tutti i popoli del mondo!” Dopo qualche istante, intorno a me non c’è più nessuno. Un’idea mi folgora nel cervello: la fuga. Mi alzo prontamente, mi guardo intorno e corro verso le tende, scostando i teli per vedere se trovo Anna e Stefania. Sono troppe e rischio di farmi riprendere, così mi giro e corro verso il bosco. Una corsa disperata, senza guardare dove vado, finché il fiato mi diventa corto. Il cuore mi batte forte nel petto, ma non mi posso fermare. Debbo trovare mia moglie e la bambina, le devo salvare da quel mucchio di pazzi assassini. Il terreno sparisce di colpo sotto i miei piedi ed io precipito giù come un sacco di patate. Come la prima volta, la mia testa trova un masso. Il dolore mi fa svenire.

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In lontananza sento delle voci. I miei sensi si riprendono quando mi giunge la voce di Anna. “Che dice dottore, avrà avuto un trauma grave?” Poi una voce di bambina aggiunge: “Mamma, ma papà sta bene, vero? Si sveglierà presto, no?” “Sì, tesoro, il papà ha solo battuto la testa in terra, vedrai ora si sveglia!” Apro lentamente gli occhi e sorrido, ma un pensiero tremendo mi attraversa la mente: i mongoli! Mi tiro su e: “Anna, Stefania!” grido “fuggite! Arrivano i mongoli! Presto, non c’è tempo!” Ma le due mani robuste del dottore mi trattengono supino. “Non si preoccupi, signora! E’ il trauma del colpo subito. Ora lo portiamo all’Ospedale, faremo le radiografie e, se non c’è nulla, fra una settimana ve lo restituiamo come nuovo. Guardi, abbiamo anche trovato questo ciondolino nelle sue tasche.” “Bello! Mamma, me lo fai vedere? E’ d’oro? Ah, ma è un’aquila!” esclama Stefania. Poi chiede: “Ma papà ha avuto un incubo?” “No amore,” le risponde la mamma, ma i suoi occhi osservano con curiosità lo strano oggetto d’oro, “ha solo fatto un brutto sogno, ma ora passerà tutto. Lo abbracceremo e lo baceremo, così se ne dimenticherà!” Le loro voci hanno su di me l’effetto di un balsamo. Mi calmo. Ho visto il dottore e mi convinco sempre più che Anna ha ragione: è stato solo un brutto sogno. Un sogno però che viene dalle profondità del tempo e penso che, quel giorno di gennaio del 1242, Trieste e l’Italia tutta, rischiarono veramente di scomparire. 

(Alfredo Betocchi).

1 commento:

  1. Inizialmente avevo detto all'autore di questa storia che l'avrei postata ma non l'avrei lasciata concorrere con le altre perché un po' più lunga di due pagine, ma praticamente quasi tutti hanno mandato storie che sforavano di quasi una pagina, quindi ho chiuso un occhio per tutti e l'ho reintegrata in gara. :) È molto interessante e originale, mi ha stupito la gitarella nel passato (o in un mondo parallelo, l'autore lo lascia intendere ma non conferma nulla) del protagonista in bilico tra sogno e realtà, che lascia al lettore l'interpretazione finale. È una delle storie che più colpisce.

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